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IPPAWARDS 2017: Sebastiano Tomada Piccolomini conquista il Grand Prize.

La conversazione con Sebastiano Tomada Piccolomini (31 anni, residente a New York con ascendenze italiane da parte di entrambi i genitori e lunghi periodi trascorsi a Firenze, Udine e Cortina) avviene dopo la vittoria della decima edizione di IPPAWARDS 2017, premio internazionale dedicato agli scatti realizzati con Iphone o Ipad. La sua” Children of Qayyarah
“, con bambini che vagano nelle strade deserte della città irachena, vicino al fuoco e al fumo nero che si propagano dai pozzi di petrolio incendiati dai miliziani dell’ISIS, è stata scattata il 4 novembre 2016 e ha ottenuto il Grand Prize.

La data è significativa, perché Sebastiano, fotogiornalista di eccellenza, pluripremiato a livello internazionale e specializzato nei conflitti del Medio Oriente, in realtà è da quasi due anni che si occupa principalmente della realizzazione di un documentario video sulle motivazioni intime per cui gli uomini desiderano la guerra. In questo periodo gli scatti fotografici sono stati molto meno frequenti e soprattutto slegati alle dinamiche tecniche che una macchina professionale impone. Un momento rubato, quindi, in modo del tutto spontaneo. Un risultato, quello del premio, piacevolmente inaspettato.

Forte di un impegno professionale in prima linea nei conflitti in Afghanistan, Iraq, Libia e Siria, Sebastiano si sta dedicando a scandagliare in termini psicologici e ovviamente visivi le ragioni per cui alcuni uomini cercano necessariamente il conflitto e il fronte per tutta la vita: da militari o da volontari, in chiave concreta e non solo simbolica. E lo fa  con la sua modalità formale, che unisce la fotografia documentaristica e il ritratto personale. Ci dice subito che la guerra è comunque maschile, essendo presente una sola donna tra i suoi intervistati. Donne che peraltro sono al centro di uno dei suoi lavori più potenti, datato 2013, con ritratti in bianco e nero di combattenti siriane, che allora si stavano iniziando ad organizzare in squadre di supporto.

Sebastiano si forma presso la Parsons University e la New School di New York, dove nel 2010 si laurea sia in Media Studies che in Photography. La prima esperienza è nel mondo della moda, che gli consente di entrare in contatto con mostri sacri come Steven Klein, Mario Testino e Wayne Maser. “Ho capito subito però di non avere l’attitudine o l’impronta caratteriale adatta al fashion system e al suo sistema di relazioni” afferma in modo diretto, ma senza arroganza o presunzione. E’ lo stesso Wayne Maser che, vistolo titubante di fronte ad una estemporanea richiesta di un’agenzia francese alla ricerca di un reporter che scattasse ritratti di persone impegnate nel conflitto in Afghanistan, lo spinge ad accettare l’incarico, segnando di fatto una svolta determinante nel suo percorso professionale.

 

 

Le parole che ricorrono più volte nel corso della conversazione, focalizzandone il senso, sono adrenalina e anestesia. Di fronte ad una domanda sul sentimento principale che si prova o è necessario provare per sostenere ciò che il fotogiornalismo di guerra comporta, Sebastiano parla di eccitazione e pienezza di cui si viene pervasi. Una percezione di avventura e di profonda comprensione di ciò che la guerra e, per estensione anche la vita, possa essere. “La dimensione anestetizzata è successiva, è il corpo che letteralmente si adatta alla situazione, ancor prima che la tua psiche. La senti addosso, è una sensazione stranissima e difficile da esprimere: una sorta di corazza dopo un carico di eccitazione dirompente. E può diventare anche pericolosa”.

“Se mi chiedi cosa cerchi la committenza editoriale, la mia risposta è univoca:  lo choc, as much as you can. Se chiedi cosa cerco io, ti dico l’onestà. Che è la verità di un attimo e di uno scatto o di una ripresa, certo, ma con il controllo e con la responsabilità di raccontare esattamente e senza altri fini cosa quel momento o quell’immagine rappresentino. Si parla spesso in modo critico di come il fotogiornalismo possa anche creare delle distorsioni percettive ad hoc. E’ vero, è possibile. Pensa all’immagine di una persona con lo sguardo verso l’alto, con le braccia sollevate in modo drammatico: sta a te, operatore, dichiarare con esattezza se l’uomo sta pregando, è immerso in un sentimento generale di tragedia o se sta piangendo una persona appena morta. Analoga cosa, per andare oltre il tema delle inquadrature, con l’utilizzo della luce. Io cerco l’onestà di un racconto non artificioso”.

“C’è un’esperienza che più di altre mi ha fatto capire il potenziale di rischio connesso a ciò che faccio: è stato in Syria, nel 2014, seguendo i White Helmets, i soccorritori che di fatto sono stati i primi e gli ultimi a poter entrare in alcune aree del conflitto. Un elicottero delle forze di Assad è arrivato improvvisamente e ha sganciato una bomba nel giardino dell’edificio che ci ospitava. La stanza adiacente alla mia è stata completamente distrutta e siamo rimasti incolumi per uno spazio di pochissimi metri, forse centimetri. Cosa rimane effettivamente dopo tutto questo, al ritorno? Un po’ dispiace dirlo ma un maggiore distacco in generale verso l’umanità, un minor livello di affettività”.

“Anche l’empatia e l’agire nell’immediatezza sono presenti, ovviamente. Un ricordo su tutti risale al novembre del 2016, allorché assieme ad un collega ci siamo trovati di fronte ad una famiglia con un bambino in fin di vita a causa delle schegge di mortaio. La situazione era gravissima e non c’erano medici disponibili per affrontare l’emergenza, tutti occupati a salvare altre vite. Senza pensarci, abbiamo lasciato le nostre videocamere e abbiamo portato via il bambino, nella ricerca disperata di qualche soluzione possibile in altri ospedali della città sotto assedio. Il bambino alla fine è stato soccorso e ce l’ha fatta, ma il dramma è che nel frattempo ci eravamo persi la famiglia e abbiamo passato due giorni interi a cercare di riconnetterli, con un passaparola disperato e con messaggi nei luoghi pubblici in cui feriti e malati transitavano”.

“Una cosa che non è quasi mai chiara rispetto al mio lavoro è la quantità di energia e impegno necessaria per arrivare al risultato: passo l’80% del mio tempo ad organizzare gli aspetti della pre-produzione, la logistica, l’attivazione di rapporti personali e la creazione di connessioni per poter essere presenti e sicuri in un determinato spazio e tempo. Lo scatto è il risultato di un grande sforzo organizzativo e pratico. E sapersi muovere, districandosi tra problemi e rischi, è parte integrante della tua capacità professionale”.

“Passo una quantità limitata di tempo a New York e la maggiore parte delle mie giornate si svolgono necessariamente all’estero. Torno poco in Italia e quello che mi colpisce, parlando di talenti e competenze, è quanta fatica facciano tanti amici bravissimi, ad alta scolarità e superqualificati in vari ambiti professionali, per poter emergere, esprimere il loro potenziale e aspirare ad un giusto salto qualitativo”.